lunedì 25 febbraio 2008

se la domanda supera l'offerta

Che ne facciamo dei vecchi? Abbonderanno, a quanto pare, data la tendenza a svecchiare la politica, il mondo del lavoro e delle professioni.
Voi direte: era ora e naturalmente avete molte ragioni valide dalla vostra, ma la vita media inesorabilmente si allunga e tende a parificarsi tra i sessi, -dati i nuovi stili di vita delle donne che le espongono al rischio-stress e malanni collegati e a quelli del fumo.
Quelli di loro più ricchi hanno molta più trippa da mettere nel piatto: viaggeranno o si dedicheranno agli interessi lasciati a causa dell’impegno lavorativo e politico, ma quegli altri, l’immensa truppa degli altri che fa, oltre a intasare le sale del liscio e le panchine ai giardinetti e i bar?
La domanda di lavoro supera l’offerta e, in ogni caso, l’offerta è selettiva e privilegia i più giovani.
Il problema del fare cosa è importante; è una disciplina che dovrebbe occupare la mente e impedirle di sbandare. E’ una rotaia che costringe le ruote del vivere in una direzione perché il treno dei nostri giorni e delle nostre menti ha rigidità che non si possono elaborare altrimenti.
Leggevo il libro un di un tale, tempo fa, un nobel sudafricano, che aveva a protagonista un professore appena sopra la cinquantina, in crisi di incombente senilità. Il titolo diceva già tutto: ‘Vergogna’. Una storia terribile, di dolore che non si sa elaborare e una violenza assurda intorno e l‘indifferenza e la solitudine tua e quella degli altri a specchio.
Cambiano i rapporti con le donne e con i figli a quell’età, la maledetta età biologica sempre più si discosta da quella socialmente convenuta e ti ritrovi a dover ri-costruire tutto intorno a te stesso come fosse un fortino dove rinchiudersi. Non è un paese per vecchi, un mondo per vecchi questo nostro che abitiamo.
Forse non lo è neanche per i giovani, d’accordo, e per i diseredati in genere. L’umanità esonda nei suoi numeri e nei problemi che ne conseguono.
Kapuscinscki, il grande reporter polacco morto di recente, raccontava di un villaggio africano polveroso, arido, dove la sferza del sole e la miseria costringeva gli abitanti in una apatia priva di orizzonti. Ronzare di mosche e vorticare del vento caldo e silenzio e uomini e donne e bambini seduti a far niente. D’un tratto arriva un tale, uno che girava documentari. Fa scendere la troupe dai pulmini, piazza potenti casse acustiche intorno a uno spiazzo assolato, parlamenta con alcuni adulti e donne e quando parte la musica come d’incanto tutti iniziano a ballare, compresi vecchi e bambini. Una coreografia naturale di movimenti aggraziati, particolarissimi, che quella gente aveva nel sangue.
Tutto dura non più di tre ore. Pura vita, inaspettata, sorprendente, poi lo sgommare dei pulmini e di nuovo l’apatia, il silenzio, il ronzare delle mosche, il sole a picco.
Che ne facciamo di questa umanitaria apatica, eccedentaria, metafora di tutto un continente disgraziato, si chiedeva Kapuscinsky.
Già, che ne facciamo?

domenica 24 febbraio 2008

i sogni di un 'nuovo inizio'

I nuovi inizi hanno la capacità di ringalluzzirci come nient’altro nelle nostre vite. Che si tratti di amori, di progetti di nuove attività lavorative o di cambiamenti nella vita politica e al vertice delle istituzioni.
La campagna elettorale è un periodo spumeggiante nella nostra vita personale e collettiva. Si punta sul proprio campione, lo si gettona, si sognano i ‘nuovi inizi’ relativi alle tassazioni più basse, un nuovo impulso per l’economia e varie altre idealità per chi professa fede di sinistra.
E’ la barca della speranza che ci spinge, adrenalina delle menti e delle vite, ma approderà a un lido di realtà, troverà realizzazioni? Bravi, la risposta ve la siete già data, perché, malgrado la speranza, in voi agisce anche la maledetta serotonina del realismo, la triste constatazione che ‘sono tutti uguali’, che ‘promettono, promettono, ma poi non mantengono’ e via elencando delle note geremiadi di ognuno e tutti.
E’ un po’ come ad ogni anno nuovo; saltano i tappi dello spumante, auguri, auguri, sorrisi e strette di mano, ma dura, hèlas, l’espace d’un matin, quand’è tanto. Nel sapido dialogo tra un venditore di almanacchi e un passeggero, Leopardi ci spiega da par suo qual è il meccanismo e la ‘filosofia’ di questo contraltare di attese ed emozioni che insorgono, presto deluse, a me interessa sottolineare la contraddizione per dire che Cuba si è guadagnata la palma di paese che meglio ha coniugato sviluppo economico e rispetto dell’ambiente - ascoltatevi la trasmissione che ne parlerà diffusamente su radio tre alle ore 10 circa.
La domanda sorge spontanea: uno sviluppo sostenibile e rispettoso dell’ambiente è necessariamente uno sviluppo rallentato, da economia depressa? Mi spaventa lo scenario che si prospetta del dopo-Castro -inteso come inevitabile caduta dei due rocciosi fratelli ormai giunti alla fine del loro percorso di vita.
Mi spaventa la prospettiva di Cuba come 52sima provincia americana, gestita da quegli autentici piranhas dei fuoriusciti che rientrano con capitali più o meno puliti e una voglia di rivalsa e di affermazione da paura.
Il capitalismo che sposa sua sorella la democrazia è sinonimo di incesto ed è gravido delle note conseguenze negative; citatemi un solo caso di transizione pacifica e pulita (moralmente ed ecologicamente) dal vecchio equilibrio sociale e politico al nuovo - buona ultima la Russia in ordine di tempo.
Mi spaventa anche perché un mio carissimo amico perderà il suo ‘buen retiro’ e vedrà infrangersi il suo sogno di ‘nuovo inizio’ in quel di Camaguey, suo ultimo sogno di paradiso in terra.

Dum Sagunto expugnatur....

lettere aperta all'amico Stefano

Geigei, sono sempre stato convinto della tua buonafede, come di quella di Eulo e del Mellen e di altri forumisti, tutta gente disillusa e disincantata.
Il disincanto è come un sereno Limbo dove ci si aggira discettando elegantemente e con allegra ironia sull'incendio di Roma più sotto e sui topi che scappano dai cumuli di immondizie squittendo. Va bene, è leggittimo astenersi e godersi lo spettacolo, indicando col dito le pantegane più grosse che guidano la fuga.
Altri dicono 'I care' e ci provano a risolvere cogli strumenti messi a disposizione, malgrado il gigantesco discredito della politica, - e ci mettono la faccia e il resto.
Alcuni strumenti di governo della cosa pubblica ci sono che possono dare risultati e si provano a usarli. Colla serena coscienza che ci sono elettori con un certo reddito e altra gente con diversa storia personale e reddituale. E che ogni decisione presa pesa diversamente su questi e su quelli.
Per i miracoli si va in chiesa e si aspetta lo scrosciare del tuono e il lampo del divino che avesse voglia di manifestarsi.
Cosa differenzi Berlusconi da W. Veltroni ti è chiaro, non sei affetto da sindorme Vandalica. Al riguardo mi viene in mente Serse, il grande re con l'esercito imbelle composto di schiavi e la valentia degli spartani morti combattendo alle Termopili.
I liberi cittadini delle polis greche versus le migliaia di servi avviliti dall'imperio dei Persiani. Perfino gli Immortali - la guardia regia, gli eletti- ci rimisero la fama alle Termopili contro chi lottava per un diverso concetto di cittadinanza e di fede politica.
Dum Sagunto expugnatur....rimproverava un vescovo in anni lontani davanti al feretro di servitori dello stato morti per causa di servizio 'per la patria', si sarebbe detto un tempo.
L'antipolitica è una reazione stizzita, è il gesto del buttar via, il rovesciare il tavolo e fregarsene delle regole.
Costruire è più difficile e sei soggetto a giudizio. Un'altra storia davvero, che esige cuore e mente disposti al 'servizio' civile.
Non ce ne sono molti di credibili su piazza e anche scegliere il male minore, a volte, è un buon scegliere.
Abbraccione.

sabato 23 febbraio 2008

il buio di uno sguardo

Tutti e due sgorgano da un amore per la vita clamoroso, commovente, ma l’uno piegava verso il buio di uno sguardo che si chiude volontariamente, l’altro prende la strada del ri-trovarsi - con l’impeto di uno spavento che annichila - nell’immaginazione e nella memoria. Non diversamente fanno i prigionieri per sopravvivere dentro le strette mura e buie che limitano la loro libertà e il pensiero corre alla povera Betancourt e alla sua tragedia di vita.
L’uno ci parlava pianamente di un ‘Mare dentro’ all’anima -che ancora muove le sue onde e si abbatte sulle spiagge più assolate del nostro vivere con frantumati tonfi di risacca.
L’altro compie un’operazione cinematograficamente incredibile -con movimenti di camera complessi e inizialmente fastidiosi, ma atti a dire (splendidamente, a mio avviso) di una tragedia della vista che poi si scopre essere tragedia di collegamenti mente-corpo.
Entrambi i film parlano della vita osservata dalla parte delle radici: rovesciate all’insù da un improvviso passaggio dell’aratro che ha scavato un solco col prima del nostro corpo e della sua salute e non dà più speranza di un ristabilimento del come eravamo.
Vite nuove, residue, ma vita? Il dibattito è antico e coinvolgente come nessuno altro. Che cos’è veramente vita? Che cosa dà senso ai giorni nostri? Tutto, anche un semplice sguardo annoiato -se ri-visto dalla parte delle radici di chi si sente prossimo al nulla che ci aspetta di là del sonno e del sogno.
‘Lo scafandro e la farfalla’ è un film magnifico e terribile, una storia che ti immerge nel profondo delle viscere nostre esistenziali e strappa alghe lunghe radicate a nostra insaputa. Le strappa una a una, facendoci provare un dolore lancinante, ma lasciando insorgere una dolcezza nuova e sgorgare le lacrime di tutti gli addii di cui siamo stati protagonisti crudeli e parzialmente incoscienti.
Come tutto della luce residua di un giorno ci parla di amore -dato, perduto, ritrovato, vagheggiato!
Come siamo stati insensibili, crudeli,stupidi ! - e ce ne accorgiamo guardando chi torna a trovarci come fosse una prima volta assoluta e tutto fosse miracolosamente ancora possibile e lo è, ma solo nel tempo della memoria e nell’abbandono a quanto di noi sopravvive: l’immaginazione che consente un ritorno al passato e lo rigenera.
Se non otterrà uno o più oscar prossimi venturi vuol dire che ci sono storie davvero straordinarie e bellissime in giro per le sale, ma il mio voto è già assegnato : qui si parla di vita e di morte nel solo modo che i poeti ci dicono degno di essere scritto: con uno sguardo di pietà e consolazione.

venerdì 22 febbraio 2008

dell'amore e di altre catastrofi



Alla fine sei costretto ad ammetterlo. Non succede mai allo stesso modo, ma il riconoscimento, quello si, è uguale sotto tutte le latitudini spazio-temporali. Quand’ero giovane era uguale?
Non so più. Cambiano i modelli dei comportamenti, il gioco degli sguardi, i sorrisi; cambi tu e l’arroganza della gioventù non c’è più a darti una mano per vincere ritrosia e timidezze nuove.
Succede che i pensieri si incantano, che il pensiero della ‘grazia’ -si rara, ahinoi, di questi tempi- batte come un dente che duole e non appartiene ad altre che a quella figuretta di donna che sa ridere come nessun’altra, muoversi come di altre non noti.
Il suo danzare è un incedere ipnotico e aggraziatissimo di movimenti segreti , tanto commoventi che le concederesti su due piedi la testa del Battista (e, per sovrappiù, quelle di Berlusconi e di Boldi e Schifani) e quando finalmente è il tuo turno e la allacci e partono i passi un tremore che fatichi a controllare si impadronisce delle mani, gli sguardi furtivi vanno e tornano in affanno e vorresti che la musica non terminasse e non ti lasciasse, come fa, impaperato in mezzo alla sala sotto gli occhi di tutti come se ti avessero colto in flagranza di reato.
Che fare? L’età non consente più colpi di testa e poi una donna così ti fa nero nello spazio di un mattino - già sbaragliare la concorrenza in questa sala e trovare lo spazio di una tanda insieme è un’impresa.
Si dovrebbe sterilizzare il cuore e gli organi collegati a un certo punto del nostro vivere. Come ad ogni primavera, tornano fuori i virgulti delle foglie nuove, ma l’albero ha raggiunto la sua altezza massima e le radici sai che non tengono più il vento d’alta quota come un tempo.
L’amore è un’immensa catastrofe fuori dei circuiti di garanzia della bella e impunita gioventù e tutto oggi si travasa nei sogni fragili che mai come adesso vorresti scambiare col sonno triste della veglia nostra apparente che chiamiamo vita.

giovedì 21 febbraio 2008

la logica dell'inclusione

Il paradosso è dato dalla logica di inclusione. I serbi, cioè, pretendono di dare cittadinanza serba ai Kossovari, in maggioranza albanesi. Grazie no facciamo da soli, ribattono questi e qui salta il tappo e fuoriesce il liquido fermentato nel corso degli anni e dei secoli.
Quella dove abitate è terra nostra, il cuore della nazione serba, il luogo leggendario dei conflitti fondativi della nostra essenza di popolo. Ecchissenefrega, adesso ci stiamo noi, siamo maggioranza, potevate pensarci prima. Questo, in brutale sintesi il nodo della contesa.
Domanda: una terra è di chi la abita o di chi la vagheggia come sua culla storica? Se adottassimo quest’ultimo come principio dirimente i conflitti davanti all’assemblea dell’Onu, dovremmo ridisegnare i confini di buona parte della carta geopolitica planetaria. Molti stati federati degli States andrebbero ai nativi Seminole o Navajos o Sioux o Apaches, gli eredi dei Maya al potere in Centroamerica, via i Palestinesi o gli Ebrei dalla Palestina o dai luoghi dei nomadi Giudei -secondo che si accettino e si giudichino più accattivanti e cogenti i racconti mitici dell’una o dell’altra parte.
Ci sarebbe una terza via, ma, chissà come, nessuno la prende in considerazione: la coesistenza pacifica, normata e supervisionata dalle assemblee e dai trattati internazionali, dagli statuti di coabitazione che fissano diritti e doveri di una parte e dell’altra in conflitto e i rispetti e i riconoscimenti, ma, già, siamo solo nel 2008, queste cose sono di là da venire, sono il futuro che qualcuno dice non essere ancora scritto e foriero di oscuri accadimenti.

più vero del vero

Ho fatto un sogno, stanotte. E chi non ne fa. Sapete, quei sogni che paiono più veri del vero, iperrealistici, si dice. Sognavo che guardavo un film già visto, un film che mi aveva visto emotivamente partecipe e schierato dietro al protagonista che lottava contro un intreccio di cattive cose: gente malvagia, gente che si faceva i fatti propri incuranti del benessere e dei diritti di ognuno e tutti; lottava contro il male, insomma, e io (e tutti a noi) a parteggiare, a dirlo bravo, a incitarlo in silenzio fino alla fine del film, quando, miracolo! egli trionfa e vince e ottiene giustizia e vede i malvagi puniti.
Come succede in (quasi) tutti i films e per (quasi) tutti i bravi spettatori e lettori di storie.
Beh, nel sogno io non ero più io. Non parteggiavo più per il bravo e coraggioso contro il marrano e impunito.
Non mi importava più di giustizia ottenuta e trionfo dei nostri buoni valori comuni. Che si fottano tutti questi eroi positivi di tutte le buone e brave storie del mondo. Chi sta male e peggio di me non sono fatti miei; chi lotterà contro un destino malvagio e rio lo faccia e non rompa le sacrosante scatole all’universo mondo dando troppa pubblicità alla cosa.
Ognuno ha il suo da sbrogliare di negativo, rimboccarsi le maniche e la-u-rare.
Che senso di sollievo usciva da quel mio sogno. Che conforto contro la solitudine esistenziale che schiaccia tutti gli eroi positivi e li condanna a quelle menate del lottare sempre per affermare i ‘valori positivi‘ che danno peso e senso alle vite -come dicono certi fastidiosi grilli parlanti sui giornali.
Che senso di comunanza vivevo in quel mio sogno denso di emozioni segrete che mi vedeva finalmente partecipe di un sentire comune: tutti insieme uniti in quel sano e realistico cinismo che ci fa votare col portafoglio e premiare quei bravi liberali spregiudicati e realistici che sanno come fare per rialzare l’Italia.
Italia in marcia, serriamoci a coorte, il futuro è nostro. Ragazzi, non mi volevo più svegliare…