L'ammissione
del condannato
di
FRANCESCO MERLO
Da
unto del Signore a miracolato di Napolitano? L'istinto gli dice che
chiedere la grazia non sarebbe umiltà, ma umiliazione. La furbizia
invece gliela suggerisce come ultima spiaggia. In questo dilemma che
non è dostoevskiano ma truffaldino, Berlusconi degrada anche il
nobile istituto della grazia. I
suoi delitti e la sua pretesa estortiva fanno di un valore laico e
religioso una merce politica, "reificata" direbbe Marx, una
miseria nel mercato dei partiti, un privilegio di casta.
"Ci
sta pensando" dicono i suoi fedelissimi. "La chiederà",
annunzia il suo avvocato e viene subito costretto a smentire.
Berlusconi infatti la vorrebbe ma solo se mascherata da quarto grado
di giudizio, riparazione di un torto, come gli suggeriscono la
Santanché e Verdini, Cicchito e Alfano, sia i falchi e sia le
colombe che pretendono di gestire la grazia come la presidenza di un
ente pubblico, le nomine in un'impresa a partecipazione statale, la
direzione del Tg1, un investimento da sottoporre alla solita
contabilità politica.
E però
il vecchio impresario di spettacolo, pur acciaccato e mal ridotto,
capisce ancora benissimo che, questa volta, neppure il fracasso dei
suoi giornali e delle sue tv riuscirebbe a coprire la potenza
evocativa della richiesta di grazia del condannato Berlusconi Silvio
all'ultimo comunista, al più longevo discendente di Amendola e
Togliatti, una Canossa che farebbe il giro del mondo, un po' come
l'immagine della statua di Saddam abbattuta dalla democrazia
finalmente vincente.
La
grazia, concessa o negata che sia, è un atto unilaterale, gratuito
per sua natura, che non può essere deciso da un consiglio di
amministrazione bipartisan governato da Enrico Letta e Angelino
Alfano. La grazia non è una larga intesa ma al contrario un piccolo
grande gesto che il capo dello Stato compie con il minimo di
pubblicità possibile perché è pudore, è discrezione, è sovranità
che si esprime in atti minimi, è forza che compatisce e non punisce.
La grazia sostituisce alla violenza della pena l'energia della
compassione.
Ecco
perché Berlusconi non si decide e ancora non cede a tutti i gregari
che hanno comunque bisogno di un capo. Berlusconi
non vuole essere il loro capo per concessione, per grazia ricevuta da
Napolitano.
Come
si vede, chiunque la chieda al suo posto, la domanda di grazia
sarebbe per lui una resa politica e un'ammissione di colpa, un
riconoscimento della sentenza che, ribadita in tre gradi di
giudizio, per
qualsiasi altro italiano è la più basilare ovvietà dello Stato di
diritto. E invece Berlusconi la denunzia come un ciclopico
complotto della
magistratura. E dunque non può chiedere la grazia al capo di quella
magistratura.
E
va da sé che non chiedere la grazia non significa essere innocenti,
ma solo non riconoscere il codice che ti ha condannato. Berlusconi
non lo riconosce, lo combatte, lo considera una variante della
battaglia politica, una continuazione della politica con altri
mezzi.
Perciò
sfugge a Gianni Letta, si dispera al telefono con Cicchitto,
raffredda le divampanti spavalderie del Giornale e di Libero, si
rimpicciolisce nell'angolo davanti agli incitamenti di Giuliano
Ferrara e alle tenere pressioni della famiglia. Non perché è uno
statista ma perché al contrario l'ha combinata così grossa che non
ne esce neppure con la grazia, che anzi gli suona come un'altra
disgrazia.
D'altra
parte, in Italia c'è una folla di colpevoli che ogni giorno chiede e
non ottiene la grazia. Tra loro ci sono delinquenti meno delinquenti
di Berlusconi e altri che lo sono di più, ma che stanno davvero in
galera. Solo i giornali della casa si comportano come se Berlusconi
stesse per essere rinchiuso ad Alcatraz, come se non fosse stato
condannato per un'accertata frode allo Stato, come se non avesse
davanti i domiciliari ad Arcore o l'assegnazione ai servizi sociali,
come se non gli fosse stata assicurata anche l'agibilità politica
mentre sconterà la pena, come se fosse il conte di Montecristo,
ingiustamente e vilmente segregato tra i topi, a contatto diretto col
bugliolo e i fetori, le cimici, i pidocchi, la barba lunga e il
cerone che cola sul lifting disfatto.
C'è,
infine, nella sua tormentata indecisione, nel suo tentennare tra "la
chiedo" e "non la chiedo" l'essenza stessa del
berlusconismo, la natura profonda di Silvio Berlusconi che non può
neppure immaginare di non ottenere quel che chiede, abituato com'è
ad avere e a comprare tutto, anche le donne, il consenso e
l'obbedienza.
Berlusconi
si trova per la prima volta nella condizione di subire un rifiuto.
Non c'è infatti nessun Gianni Letta e nessuna responsabile politica
delle larghe intese che possa garantirgli il favore di Napolitano.
Anzi, se possiamo azzardare una previsione è molto probabile che
Napolitano non ceda, neppure per stanchezza. E certo non per paura
dei soliti esagitati che già lo destinano all'impeachment. La
verità è che Berlusconi vuole la grazia prima ancora di chiederla,
a garanzia della stabilità politica. Vuole vincere la partita prima
di giocarla. Vuole, come al solito, comprare il risultato.
E
più si muove Gianni Letta con la sua felpata agitazione meno
probabilità ci sono di ottenere una grazia che diventerebbe non solo
la vittoria del ricatto ma anche il trionfo del peggiore politichese
di corridoio, di
una improponibile diplomazia dell'impunità che più lavora
nell'ombra più toglie grazia all'istituto della grazia. E
sarebbe anche il premio ai giornalisti della casa che si esibiscono
in esegesi dottrinaria cavillando come esperti di retorica forense
sulla giurisprudenza delle prerogative del capo dello Stato e intanto
incitano alle passioni di piazza e alle fiamme dell'anima per
difendere non il Dreyfus italiano ma la frode fiscale. E
segnerebbe ancora la rinascita dei giustizialisti a quattro un soldo,
quelli appunto che minacciano preventivamente il capo dello Stato, il
giustizialismo demagogico che sogna la grazia a Berlusconi più di
Berlusconi stesso.
Rimane
la sofferenza che Berlusconi sta esibendo, quella sua maschera di
vecchio tormentato, curvo e appesantito dal tempo e dagli stravizi.
Ebbene quel suo corpo dolente che chiede grazia da un parte ti chiama
alla pietà e dall'altra ti indurisce. Più vorresti aiutarlo, più
ti incupisce e ti inquieta perché nella sua decadenza fisica c'è
tutta la pessima esperienza dell'illegalità al potere, lo
sbrindellamento dello Stato degli ultimi venti anni.
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